Sono un privilegiato


Avvertenze: non sarò breve, in compenso sarò logorroico, vagamente sarcastico, talvolta irritante, a tratti dannatamente arrogante. Per evitare equivoci, premetto che la mia è una situazione privilegiata.

Sono un privilegiato. Vivo da solo, il mio appartamento ha due terrazze, una delle quali assolata fino a metà pomeriggio. L’ideale per trascorrere queste giornate di quarantena all’aria aperta, pur rimanendo in casa. Non ho un mutuo da pagare, ho un buon tenore di vita, ho quattro lire in banca per ogni evenienza. Sono un privilegiato. In parte grazie ai sacrifici dei miei genitori, in parte per le scelte che ho fatto e per le decisioni che ho preso nella mia vita, in parte perché semplicemente è andata così, chiamiamolo destino. Sono un imprenditore. Una micro impresa del nord-est, quelle imprese a gestione familiare, quelle metalmeccaniche, dove d’inverno i polpastrelli si ghiacciano nonostante i guanti da lavoro, a maneggiare l’acciaio freddo come la neve, dove d’estate si sudano sette camicie sotto gli indumenti da lavoro, quelle dove tutto l’anno ci si sporca le mani con il grasso dei macchinari di produzione. Sono un privilegiato. In parte perché la mia famiglia ha sempre scelto di lavorare con collaboratori in gamba, di fiducia, che sanno il fatto loro, senza pensare a quanto questo costasse, nei limiti delle nostre possibilità. Sono un privilegiato. Da anni ormai non lavoro più nell’officina meccanica della mia azienda, mi godo il riscaldamento e l’aria condizionata del mio ufficio. Ma in officina ci sono stato, per anni, e talvolta ci torno, ovviamente, in caso di necessità. Caratterialmente sono un solitario, parlo poco. Non sono particolarmente empatico in generale, e non lo sono nemmeno con i miei collaboratori. Preferisco dimostrare la mia attenzione con gesti concreti, e con il mio esempio personale. Le priorità per noi sono sempre state i dipendenti, i fornitori, le tasse, la famiglia, l’azienda. Guadagnare, fare i soldi, arricchirci, non è mai stato e mai sarà l’obiettivo del nostro fare impresa.

E’ una questione di educazione, e di valori.

Di mio nonno Pietro ho pochissimi ricordi. Ma conservo, distintamente, nella mia memoria, alcune istantanee delle passeggiate in bicicletta lungo l’argine del canale di Battaglia, il castello del Catajo, il castello di San Pelagio. Mi ricordo distintamente gli sguardi e i cenni di saluto per le strade e al bar del paese, dove di ritorno dalla passeggiata ci si fermava per rifocillarci un po’. Da mio nonno Pietro ho imparato il valore dell’autorevolezza.

Di mio nonno Stigliano ho molti più ricordi. Ha vissuto una vita molto lunga, nonostante avesse passato un bel po’ di anni in fonderia. Il suo principale Dpi era costituito dai vecchi foulard di mia nonna, inumiditi con un po’ d’acqua. Non credo che i foulard di mia nonna potessero essere considerati come oggi abbiamo imparato a conoscere, a norma come dispositivi FFP2. Ma erano gli anni cinquanta, a queste cose non ci si pensava. Mio nonno Stigliano non aveva studiato, era ignorante. Ma per come ha vissuto la sua vita, ha sempre potuto discutere alla pari, a testa alta, con tutti, anche con i più eruditi insegnanti o con il prete del paese. Da mio nonno Stigliano ho imparato l’importanza del dare l’esempio per poter sostenere il proprio pensiero.

Sono un privilegiato. Con i miei genitori litigo molto spesso, anche molto duramente. Ma non ho mai desiderato avere dei genitori differenti. No so quanti imprenditori possano vantare, nel loro curriculum vitae, la partecipazione in prima fila durante le manifestazioni di piazza del primo maggio, nel bel mezzo degli anni di piombo. Io c’ero. Con la visuale privilegiata di un bambino seduto sulle spalle di suo padre. Da mio padre ho imparato a coltivare i valori in cui credo, e che i propri valori non si difendono con le chiacchiere al bar. Quando ero molto piccolo, all’asilo e nelle prime classi delle scuole elementari, ero una piccola star. Leggevo e scrivevo come nessun altro, ero spesso benvoluto dalle maestre, capitava di esser preso un po’ di mira da alcuni bambini, in qualche caso una cavolata la combinavo pure io. In tutto questo, mia madre non mi ha mai adulato e non mi ha mai difeso a priori. Da mia madre ho imparato il valore dell’onestà e del rispetto. A proposito di scuole elementari e di 25 aprile, mentre i miei compagni di classe scrivevano principalmente pensierini su come passavano le giornate di festa con mamma e papà, io tra i miei primi temini scrivevo di Sandro Pertini, il mio presidente. Non so quanti di voi possano vantare, nel loro curriculum vitae, un tema sul Presidente Pertini nei primi anni della scuola elementare.

Sono un privilegiato. Quando, nel 2002, all’età di 26 anni, mi hanno diagnosticato un neurinoma intracranico, la mia vita è cambiata inaspettatamente. L’ospedale, ore e ore in sala operatoria con un neurochirurgo che frugava dentro al mio cranio, il decorso post-operatorio, la paresi al nervo facciale, i quattro faticosissimi anni di fisioterapia. Non so quanti di voi possano vantare, nel loro curriculum vitae, la permanenza in un reparto di terapia intensiva.

Sono un privilegiato. Nel 2004, a 28 anni, vado a vivere da solo. Nel 2006, per il mio trentesimo compleanno, mi regalo una nuova vita. Ritorno a studiare, e dopo tre anni, il 29 maggio del 2009, nel giorno del mio compleanno, festeggio il mio diploma al SID di Padova. Da quel giorno, formalmente, divento un designer. Non so quanti di voi possano vantare, nel loro curriculum vitae, di essere tornati a rimboccarsi le maniche a trent’anni, per rimettersi in gioco e cambiare la loro vita.

Sono un privilegiato. Ho raggiunto e superato i 40 anni non avendo una famiglia da mantenere, in questi anni ho potuto fare qualche viaggio e visitare un po’ il mondo, non quanto avrei voluto, ma in generale ho potuto dedicare del tempo a me stesso e alla costruzione della mia cultura personale. Ho avuto la possibilità di frequentare una scuola privata e di diventare un designer, di avere il tempo e i mezzi per frequentarla. Ho avuto la possibilità di comprare molti libri, di avere il tempo per leggerli, di avere la cultura necessaria per comprenderli. A proposito di libri, quelli che vedete nella foto sono i libri che ho letto, oppure riletto, in parte o integralmente, durante queste ultime settimane. Non so quanti di voi possano vantare, nel loro curriculum da quarantena, un approfondimento di questo tipo sulle dinamiche economiche, sociali, e culturali del nostro tempo.

Vi starete chiedendo il perché di questo fiume di parole, tra l’altro ampiamente autoreferenziale. Probabilmente molti avranno abbandonato la lettura delle mie parole molto prima di arrivare a queste righe, e lo comprendo, lo dico sinceramente. Ma per i pochi ardimentosi che sono arrivati fino a questo punto, è giunto il momento di arrivare ad una conclusione, che sarà, però, anch’essa non così breve.

Molte persone, in questi giorni di quarantena, stanno elargendo giudizi sulla sanità, sull’economia, sui valori sociali e sui diritti individuali. Giudizi che provengono da tutte le classi sociali. I più accalorati provengono ovviamente dai politici di ogni ordine e grado, ma anche dai miei colleghi imprenditori. Spesso questi stessi imprenditori non si limitano a dare giudizi sull’economia, cosa che, tutto sommato, ci può pure stare. Ma allargano il loro giudizio alle priorità della convivenza sociale. Altri si spingono a giudicare il significato e i valori sociali rappresentati da celebrazioni come il 25 aprile o il 1 maggio. Attenzione, parlo di giudizi unilaterali, non di discutere una propria opinione. Si è ormai abituati ad esprimersi per sentenze, postulati, verità insindacabili.

Citando e parafrasando Giovanni Reale:
Fondamento del pensiero socratico era il "sapere di non sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere.
«Tu, ottimo uomo… non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona?» (Platone, Apologia di Socrate)

Citando il messaggio di Adriano Olivetti ai lavoratori, del 1955:
“Verso l'estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi di crescenza e di organizzazione che fu appena visibile a tutti, ma che fu non di meno di una notevole gravità. Fu quando riducemmo gli orari; le macchine si accumulavano nei magazzini di Ivrea e delle Filiali, a decine di migliaia. L'equilibrio tra spese e incassi inclinava pericolosamente: mancavano ogni mese centinaia di milioni. A quel punto c'erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c'erano cinquecento lavoratori di troppo; taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L'altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione la seconda via.

In questi ultimi anni le nostre Consociate sparse in tutto il mondo si andarono riorganizzando, ampliando, rafforzando e il nome Olivetti è diventato una bandiera che onora il lavoro italiano nel mondo. Questo riconoscimento ci riempie, è vero, di orgoglio.

Voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d'Italia egli e la sua famiglia provenisse.

Quando il punto critico cui accennavo dianzi sarà superato saranno ripresi i lavori della mensa e iniziati quelli per una nuova infermeria, ormai indispensabile. Sarà d'uopo inoltre migliorare taluni servizi culturali e sociali attualmente inadatti e insufficienti. Queste costruzioni faranno parte di un complesso più importante… che onorerà voi tutti, la nostra città, la nostra fabbrica.

Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molte nature in una misura che nessuna fabbrica ha mai operato abbiamo voluto indicare la nostra fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mille difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italiana.

Sia ben chiaro che è lungi da noi il pensiero che queste mete importanti non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono quindi al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che darà finalmente la vera libertà che è data ad ognuno soltanto quando può spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale.

Perciò io credo in una società rinnovata, che esalti e non opprima, che riconosca e non disprezzi, che accetti e non respinga l'ordine umano e divino che risplende nella verità, nell'arte, nella giustizia e sopra ogni altra cosa, nella tolleranza e nell'amore. Poiché sono stato con voi nella fabbrica, conosco la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, l'ansia di ritrovare nelle pause del lavoro la luce, il sole e poi a casa il sorriso di una donna e di un bimbo, il cuore di una madre.”



In conclusione, quello che voglio dire a tutti voi, abili vomitatori di giudizi, e in particolare a voi, politici e imprenditori, è che la vostra opinione, spesso, non mi interessa. Se volete convincermi della bontà delle vostre idee o discutere con me degli accadimenti di questo momento storico, ve lo dovete meritare: una selezione per curriculum vitae, o per atteggiamento alla conoscenza, all’onestà intellettuale, al vostro modo di intendere il fare politica e il fare impresa.

«Mi dispiace, ma io son io, e voi non siete un cazzo…»
Alberto Sordi nel film Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli.







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